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Oggetti che ci circondano

Con Gesù > Storie brevi per l'anima
Queste piccole storie vogliono solo chiederti un momento di attenzione per quelle voci che abbiamo dimenticato di ascoltare. Quelle voci e quei canti che abbiamo dentro e che ci parlano di cieli azzurri e aria pulita, di sogni e di batticuori, di voglia di abbracciarsi e piangere insieme, di un Dio sconvolgente che è venuto a chiederci di lasciarci salvare da Lui. (Bruno Ferrero)

*I gessetti colorati *Il chiodo *Il cappellino *Il cucchiaino *Il legno inutile *Il muro *Il puzzle *Il vecchio violino *La banconota *La barca *La candela che non voleva bruciare *La cipolla *La cisterna screpolata *La lampada del minatore *La moneta *La porta *La rete da pesca *La sedia vuota *La statua *L'anfora imperfetta *Le scarpe di Natale *L'occhio del falegname *L'ombrello rosso *L'uovo *Sotto la stufa

C'è un quadro famoso che rappresenta Gesù in un giardino buio. Con la mano sinistra alza una lam­pada che illumina la scena, con la destra bussa ad una porta pesante e robusta.
Quando il quadro fu presentato per la prima vol­ta ad una mostra, un visitatore fece notare al pittore un particolare curioso.
«Nel suo quadro c'è un errore. La porta è senza maniglia».
«Non è un errore» rispose il pittore. «Quella è la porta del cuore umano. Si apre solo dall'interno».
L'aeroporto di una città dell'Estremo Oriente ven­ne investito da un furioso temporale. I passeggeri attraversarono di corsa la pista per salire su un DC3 pronto al decollo per un volo interno.
Un missionario, bagnato fradicio, riuscì a trova­re un posto comodo accanto a un finestrino. Una gra­ziosa hostess aiutava gli altri passeggeri a sistemarsi.
Il decollo era prossimo e un uomo dell'equipag­gio chiuse il pesante portello dell'aereo.
Improvvisamente si vide un uomo che correva ver­so l'aereo, riparandosi come poteva, con un imper­meabile. Il ritardatario bussò energicamente alla porta dell'aereo, chiedendo di entrare. L'hostess gli spie­gò a segni che era troppo tardi. L'uomo raddoppiò i colpi contro lo sportello dell'aereo. L'hostess cer­cò di convincerlo a desistere. «Non si può... É tar­di... Dobbiamo partire», cercava di farsi capire a se­gni dall'oblò.
Niente da fare: l'uomo insisteva e chiedeva di en­trare. Alla fine, l'hostess cedette e aprì lo sportello. Tese la mano e aiutò il passeggero ritardatario a issarsi nell'interno.
E rimase a bocca aperta. Quell'uomo era il pilo­ta dell'aereo.
Attento! Non lasciare a terra il pilota della tua vita.
Nessuno sapeva quando quell'uomo fosse arrivato in città. Sembrava sempre stato là, sul marciapiede della via più affollata, quella dei negozi, dei ristoranti, dei cinema eleganti, del passeggio serale, degli incontri degli innamorati.
Ginocchioni per terra, con dei gessetti colorati, dipingeva angeli e paesaggi meravigliosi, pieni di sole, bambini felici, fiori che sbocciavano e sogni di libertà.
Da tanto tempo, la gente della città si era abituata all'uomo. Qualcuno gettava una moneta sul disegno. Qualche volta si fermavano e gli parlavano. Gli parlavano delle loro preoccupazioni, delle loro speranze; gli parlavano dei loro bambini: del più piccolo che voleva ancora dormire nel lettone e del più grande che non sapeva che Facoltà scegliere, perché il futuro è difficile da decifrare...
L'uomo ascoltava. Ascoltava molto e parlava poco.
Un giorno, l'uomo cominciò a raccogliere le sue cose per andarsene.
Si riunirono tutti intorno a lui e lo guardavano. Lo guardavano ed aspettavano.
"Lasciaci qualcosa. Per ricordare".
L'uomo mostrava le sue mani vuote: che cosa poteva donare?
Ma la gente lo circondava e aspettava.
Allora l'uomo estrasse dallo zainetto i suoi gessetti di tutti i colori, quelli che gli erano serviti per dipingere angeli, fiori e sogni, e li distribuì alla gente.
Un pezzo di gessetto colorato ciascuno, poi senza dire una parola se ne andò.
Che cosa fece la gente dei gessetti colorati? Qualcuno lo inquadrò, qualcuno lo portò al museo civico di arte moderna, qualcuno lo mise in un cassetto, la maggioranza se ne dimenticò.
É venuto un Uomo ed ha lasciato anche a te la possibilità di colorare il mondo. Tu che hai fatto dei tuoi gessetti?
"Se non me lo lasci fare non potrò andare a scuola! Mi vergognerei troppo... È terribilmente importante, mamma!". Elena scoppiò a piangere. Era la sua arma più efficace. "Uffa, fa' come vuoi...", brontolò la madre, sbattendo il cucchiaino nel lavello. "Sembrerai un mostro. Peggio per te!".
In altre 23 famiglie stava avvenendo una scenetta più o meno simile. Erano i ragazzi della Seconda B della Scuola Media "Carlo Alberto di Savoia". Per quel giorno avevano preso una decisione importante. Ma gli allievi della Seconda B erano 25.
In effetti, solo nella venticinquesima famiglia, le cose stavano andando in un modo diverso. Elisabetta era un concentrato di apprensione, la mamma e il papà cercavano di incoraggiarla. Era la quindicesima volta che la ragazzina correva a guardarsi allo specchio. "Mi prenderanno in giro, lo so. Pensa a Marisa che non mi sopporta o a Paolo che mi chiama canna da pesca! Non aspetteranno altro!".
Grossi lacrimoni salati ricominciarono a scorrere sulle guance della ragazzina. Cercò di sistemarsi il cappellino sportivo che le stava un po' largo. Il papà la guardò con la sua aria tranquilla: "Coraggio Elisabetta. Ti ricresceranno presto. Stai reagendo molto bene alla cura e fra qualche mese starai benissimo". "Sì, ma guarda!". Elisabetta indicò con aria affranta la sua testa che si rifletteva nello specchio, lucida e rosea.
La cura contro il tumore che l'aveva colpita due mesi prima le aveva fatto cadere tutti i capelli. La mamma la abbracciò: "Forza Elisabetta! Si abitueranno presto, vedrai...".
Elisabetta tirò su con il naso, si infilò il cappellino, prese lo zainetto e si avviò. Davanti alla porta della Seconda B, il cuore le martellava forte. Chiuse gli occhi ed entrò. Quando riaprì gli occhi per cercare il suo banco, vide qualcosa di strano. Tutti, ma proprio tutti, i suoi compagni avevano un cappellino in testa!
Si voltarono verso di lei e sorridendo si tolsero il cappello esclamando: "Bentornata Elisabetta!". Erano tutti rasati a zero, anche Marisa così fiera dei suoi riccioli, anche Paolo, anche Elena e Giangi e Francesca... Tutti! Ma proprio tutti! Si alzarono e abbracciarono Elisabetta che non sapeva se piangere o ridere e mormorava soltanto: "Grazie...". Dalla cattedra, sorrideva anche il professor Donati, che non si era rasato i capelli, semplicemente perché era pelato di suo e aveva la testa come una palla da biliardo.
Un mercante aveva concluso ottimi affari alla fiera: aveva venduto tutta la merce e la sua borsa era gonfia di pezzi d’oro e d’argento. Per prudenza voleva rientrare a casa prima del cadere della notte e decise perciò di mettersi sollecitamente in marcia. Assicurò saldamente la sua borsa alla sella del suo cavallo e poi lo spronò, partendo al galoppo. Verso mezzogiorno fece tappa in una città. Il palafreniere che aveva accudito il suo cavallo, tendendogli le redini, gli fece notare un particolare: “Signore, al cavallo manca un chiodo al ferro della zampa posteriore sinistra!”. “Lascia perdere – sbottò il mercante – per le sei leghe soltanto che mi restano da fare, il ferro terrà benissimo. Ho fretta”. A metà pomeriggio, il mercante sostò a una locanda e fece dare una razione d’avena alla sua cavalcatura. Il valletto che badava alla stalla venne a dirgli:
“Signore, manca un ferro alla zampa posteriore sinistra del vostro cavallo. Se volete, provvedo a ferrarlo”. A no – disse il mercante -, ho molta fretta e la bestia sopporterà bene le due leghe che mi restano da fare”. Risalì in sella e continuò la strada, ma poco dopo il cavallo cominciò a zoppicare. Non zoppicò a lungo prima di incominciare a vacillare. Non vacillò a lungo prima di cadere e spezzarsi una zampa. Così il mercante fu costretto ad abbandonarlo. Si caricò la borsa sulle spalle, fu sorpreso dalla notte quando la strada si inoltrava in un bosco pericoloso, due malandrini lo derubarono di tutto e arrivò a casa il mattino dopo, pesto e arrabbiato. “E tutto per colpa di un maledetto chiodi!”, concluse.
Le catene non tengono unito un matrimonio. Sono i fili, centinaia di piccoli fili, a cucire insieme i coniugi nel corso degli anni. Tanti piccoli fili “da niente”. Ma noi abbiamo sempre fretta e spesso ne spezziamo qualcuno. Finché ci sorprende il disastro.
Una vecchietta serena, sul letto d'ospedale, parlava con il parroco che era venuto a visitarla.
"Il Signore mi ha donato una vita bellissima. Sono pronta a partire".
"Lo so" mormorò il parroco.
"C'è una cosa che desidero. Quando mi seppelliranno voglio avere un cucchiaino in mano".
"Un cucchiaino?". Il buon parroco si mostrò autenticamente sorpreso. "Perché vuoi essere sepolta con un cucchiaino in mano?".
"Mi è sempre piaciuto partecipare ai pranzi e alla cene delle feste in parrocchia. Quando arrivavo al mio posto guardavo subito se c'era il cucchiaino vicino al piatto. Sa che cosa voleva dire? Che alla fine sarebbero arrivati il dolce o il gelato".
"E allora?".
"Significava che il meglio arrivava alla fine! E proprio questo che voglio dire al mio funerale. Quando passeranno vicino alla mia bara si chiederanno: Perché quel cucchiaino? Voglio che lei risponda che io ho il cucchiaino perché sta arrivando il meglio".
Un medico era assillato da un paziente che aveva una gran paura di morire.
"Come sarà quel momento, dottore? Che mi succederà?".
Il dottore apri la porta della stanza per andarsene e il cagnolino del malato entrò di gran carriera. Abbaiando e scodinzolando di gioia, saltò sul letto e sommerse mani e volto del padrone di leccatine affettuose.
Il dottore disse: "Sarà proprio così. Qualcuno aprirà la porta e...".
In un angolo sperduto del mondo, nel folto di una foresta fittissima, c'era una scaletta. Era una semplice scala a pioli, di vecchio legno stagionato e usurato. Era circondata da abeti, lacci, betulle. Alberi stupendi. Là in mezzo sembrava davvero una cosa meschina.
I boscaioli che lavoravano nella foresta, un giorno, arrivarono fin là. Guardarono la scala con commiserazione: "Ma che robaccia è?" esclamò uno.
"Non è buona neanche da bruciare" disse un altro.
Uno di loro impugnò l'ascia e l'abbatté con due colpi ben assestati. Venne giù in un attimo. Era davvero una cosa da niente. I boscaioli si allontanarono ridacchiando.
Ma quella era la scala su cui ogni sera si arrampicava l'omino che accendeva le stelle.
Da quella notte il cielo sulla foresta rimase senza stelle.
C'è una scala anche dentro di te. Paragonata alle tante cose che ti vengono offerte ogni giorno è un niente. Ma è la scala che serve per salire ad accendere le stelle nel tuo cielo.
Si chiama preghiera.
In un deserto aspro e roccioso vivevano due eremiti. Avevano trovato due grotte che si spalancavano vicine, una di fronte all'altra. Dopo anni di preghiere e feroci mortificazioni, uno dei due eremiti era convinto di essere arrivato alla perfezione.
L'altro era un uomo altrettanto pio, ma anche buono e indulgente. Si fermava a conversare con i rari pellegrini, confortava e ospitava coloro che si erano persi, e coloro che fuggivano; tutto tempo sottratto alla meditazione e alla preghiera, pensava il primo eremita, che disapprovava le frequenti, anche se minuscole, mancanze dell'altro.
Per fargli capire in modo visibile quanto fosse ancora lontano dalla santità, decise di posare una pietra all'imboccatura della propria grotta, ogni volta che l'altro commetteva una colpa.
Dopo qualche mese davanti alla grotta c'era un muro di pietre grigie e soffocante. E lui era murato dentro.
Talvolta intorno al cuore costruiamo dei muri. Il nostro compito più importante è impedire che si formino muri intorno al nostro cuore. E soprattutto cercare di non diventare una "pietra in più nei muri degli altri".
Durante l'assenza della moglie, un importante uomo d'affari dovette rimanere in casa per badare ai due scatenatissimi bambini. Aveva un'importante pratica da sbrigare, ma i due piccoli non lo lasciavano in pace un istante.
Cercò così di inventare un gioco che li tenesse occupati un po' di tempo. Prese da una rivista una carta geografica che rappresentava il mondo intero, una carta complicatissima per i colori dei vari stati. Con le forbici la tagliò in pezzi minutissimi che diede ai bambini, sfidandoli a ricomporre il disegno del mondo. Pensava che quel puzzle improvvisato li avrebbe tenuti occupati per qualche ora.
Un quarto d'ora dopo, i due bambini arrivarono trionfanti con il puzzle perfettamente ricomposto. "Ma come avete fatto a finire così in fretta?", chiese il padre meravigliato.
"É stato facile", rispose il più grandicello. "Sul rovescio c'era una figura di un uomo. Noi ci siamo concentrati su questa figura e, dall'altra parte, il mondo si è messo a posto da solo".
Il saggio Bayazid diceva: «Quando ero giovane ero un rivoluzionario e tutte le mie preghiere a Dio erano: "Signore, dammi la forza di cambiare il mondo". Quando ero ormai vicino alla mezza età e mi resi conto che metà della mia vita era passata senza che avessi cambiato nulla, mutai la mia preghiera in: "Signore, dammi la grazia di cambiare tutti quelli che sono in contatto con me. Solo la mia famiglia e i miei amici, e sarò contento".
Ora che sono vecchio e i miei giorni sono contati, comincio a capire quanto sono stato sciocco. La mia sola preghiera ora è: "Signore, fammi la grazia di cambiare me stesso". Se avessi pregato così fin dall'inizio non avrei sprecato la mia vita».
Se ognuno pensasse a cambiare se stesso, tutto il mondo cambierà.
Ad una vendita all'asta, il banditore sollevò un violino. Era graffiato e scheggiato. Le corde pendevano allentate e il banditore pensava non valesse la pena perdere tanto tempo con il vecchio violino, ma lo sollevò con un sorriso.
"Che offerta mi fate, signori?" gridò. "Partiamo da...100 mila lire!".
"Centocinque!" disse una voce. Poi centodieci. "Centoquindici!" disse un altro. Poi centoventi. "Centoventi mila lire, uno; centoventi mila lire, due; centoventi mila...".
Dal fondo della stanza un uomo dai capelli grigi avanzò e prese l'archetto. Con il fazzoletto spolverò il vecchio violino, tese le corde allentate, lo impugnò con energia e suonò una melodia pura e dolce come il canto degli angeli.
Quando la musica cessò, il banditore, con una voce calma e bassa, disse: "Quanto mi offrite per il vecchio violino?". E lo sollevò insieme con l'archetto.
"Un milione, e chi dice due milioni? Due milioni! E chi dice tre milioni? Tre milioni uno tre milioni, due; tre milioni e tre, aggiudicato", disse il banditore.
La gente applaudi, ma alcuni chiesero: "Che cosa ha cambiato il valore del violino?".
Pronta giunse la risposta: "Il tocco del Maestro".

Siamo vecchi strumenti impolverati e sfregiati. Ma siamo in grado di suonare sublimi armonie. Basta il tocco del Maestro.

*La banconota  

Il conferenziere iniziò il suo intervento sventolando una banconota verde da cento euro.
"Chi vuole questa banconota da cento euro?" domandò.
Si alzarono varie mani, ma il conferenziere chiarì: "Prima di consegnarla, però, devo fare una cosa".
Stropicciò la banconota furiosamente, poi disse: "Chi la vuole ancora?".
Le mani vennero sollevate di nuovo.
"E se faccio così?".
Lanciò la banconota contro il muro e, quando ricadde sul pavimento, la calpestò; poi la mostrò nuovamente all'uditorio: era ormai sporca e malconcia.
"Qualcuno la vuole ancora?".
Come al solito, le mani si alzarono.
Per quanto fosse maltrattata, la banconota non perdeva nulla del suo valore.

Molte volte nella vita veniamo feriti, calpestati, maltrattati e offesi, eppure manteniamo il nostro valore. Se lo possediamo.

Una sera, due turisti che si trovavano in un cam­ping sulle rive di un lago decisero di attraversare il lago in barca per andare a «farsi un bicchierino» nel bar situato sull'altra riva.
Ci rimasero fino a notte fonda, scolandosi una di­screta serie di bottiglie.
Quando uscirono dal bar ondeggiavano alquan­to, ma riuscirono a prendere posto nella barca per intraprendere il viaggio di ritorno.
Cominciarono a remare gagliardamente. Sudati e sbuffanti, si sforzarono con decisione per due ore. Finalmente uno disse all'altro: «Non pensi che a quest'ora dovremmo già aver toccato l'altra riva, da un bel po' di tempo?». «Certo!», rispose l'altro. «Ma for­se non abbiamo remato con abbastanza energia».
I due raddoppiarono gli sforzi e remarono risolu­tamente ancora per un'ora. Solo quando spuntò l'al­ba constatarono stupefatti che erano sempre allo stesso punto.
Si erano dimenticati di slegare la robusta fune che legava la loro barca al pontile.
Un uomo che si proclamava ateo cadde da un di­rupo. Con prontezza di riflessi riuscì ad attaccarsi ad un cespuglio che sporgeva dalla proda. Rimase in bilico sul precipizio e cominciò ad urlare senza ritegno: «Signore Iddio, salvami!».
Un silenzio totale accolse il suo grido. Ma l'uo­mo continuò ad urlare: «Dio, salvami!».
Si udì una voce dall'alto: «Dicono tutti così quan­do sono nei pasticci». «Io no, Signore! Sono assolu­tamente sincero. Parlerò dite a tutti. Crederò a tut­te le tue parole!», protestò a gran voce il poveretto.
«Va bene. Allora molla il ramo», disse Dio.
«Mollare il ramo? Non sono mica matto!».

*La candela che non voleva bruciare

Questo non si era mai visto: una candela che rifiuta di accendersi. Tutte le candele dell'armadio inorridirono. Una candela che non voleva accendersi era una cosa inaudita! Mancavano pochi giorni a Natale e tutte le candele erano eccitate all'idea di essere protagoniste della festa, con la luce, il profumo, la bellezza che irradiavano e comunicavano a tutti. Eccetto quella giovane candela rossa e dorata che ripeteva ostinatamente: "No e poi no! Io non voglio bruciare. Quando veniamo accesi, in un attimo ci consumiamo. Io voglio rimanere così come sono: elegante, bella e soprattutto intera".
"Se non bruci è come se fosse già morta senza essere vissuta", replicò un grosso cero, che aveva già visto due Natali. "Tu sei fatta di cera e stoppino ma questo è niente. Quando bruci sei veramente tu e sei completamente felice". "No, grazie tante", rispose la candela rossa. "Ammetto che il buio, il freddo e la solitudine sono orribili, ma è sempre meglio che soffrire per una fiamma che brucia".
"La vita non è fatta di parole e non si può capire con le parole, bisogna passarci dentro", continuò il cero. "Solo chi impegna il proprio essere cambia il mondo e allo stesso tempo cambia se stesso. Se lasci che la solitudine, buio e freddo avanzino, avvolgeranno il mondo".
"Vuoi dire che noi serviamo a combattere il freddo, le tenebre e la solitudine?".
"Certo", ribadì il cero. "Ci consumiamo e perdiamo eleganza e colori, ma diventiamo utili e stimati. Siamo i cavalieri della luce".
"Ma ci consumiamo e perdiamo forma e colore".
"Sì, ma siamo più forti della notte e del gelo del mondo", concluse il cero.
Così anche la candela rossa e dorata si lasciò accendere. Brillò nella notte con tutto il suo cuore e trasformo in luce la sua bellezza, come se dovesse sconfiggere da sola tutto il freddo e il buio del mondo. La cera e lo stoppino si consumarono piano piano ma la luce della candela continuò a splendere a lungo negli occhi e nel cuore degli uomini per i quali era bruciata.

Lo scrittore russo Dostoevskij racconta la storia di una signora ricca ma molto avara che, appena morta, si trovò davanti un diavolaccio che la gettò nel mare di fuoco dell'inferno. Il suo angelo custode cominciò disperatamente a pensare se per caso non esisteva qualche motivo che poteva salvarla. Finalmente si ricordò di un lontano avvenimento e disse a Dio: "Una volta la signora regalò una cipolla del suo orto a un povero".
Dio sorrise all'angelo: "Bene. Grazie a quella cipolla si potrà salvare. Prendi la cipolla e sporgiti sul mare di fuoco in modo che la signora possa afferrarla, poi tirala su. Se la tua signora rimarrà saldamente attaccata alla sua unica opera buona potrà essere tirata fino in paradiso".
L'angelo si sporse più che poté sul mare di fuoco e gridò alla donna: "Presto, attaccati alla cipolla".
Così fece la signora e subito cominciò a salire verso il cielo.
Ma uno dei condannati si afferrò all'orlo del suo abito e fu sollevato in alto con lei; un altro peccatore si attaccò al piede del primo e salì anche lui. Presto si formò una lunga coda di persone che salivano verso il paradiso attaccate alla signora aggrappata alla cipolla tenuta dall'angelo.
I diavoli era preoccupatissimi, perché l'inferno si stava praticamente svuotando, incollato alla cipolla.
La lunghissima fila arrivò fino ai cancelli del paradiso. La signora però era proprio un'avaraccia incorreggibile e, in quel momento, si accorse della fila di peccatori attaccati al suo abito e strillò irritata: "La cipolla è mia! Solo mia! Lasciatemi...". In quel preciso istante la cipolla si sbriciolò e la donna, con tutto il suo seguito, precipitò nel mare di fuoco.
Sconsolato, davanti ai cancelli del paradiso, rimase solo l'angelo custode.
Riempi le tue mani di altre mani. E stringile forte.
Ci salveremo insieme, o non ci salveremo.

*La cisterna screpolata  

Erano due cisterne a distanza di qualche decina di metri. Si guardavano e, qualche volta, facevano un po' di conversazione. Erano molto diverse.
La prima cisterna era perfetta. Le pietre che la formavano erano salde e ben compaginate. A tenuta stagna. Non una goccia della preziosa acqua era mai stata persa per causa sua.
La seconda presentava invece fenditure, come delle ferite, dalle quali sfuggivano rivoletti d'acqua.
La prima, fiera e superba della sua perfezione, si stagliava nettamente. Solo qualche insetto osava avvicinarsi o qualche uccello.
L'altra era coperta di arbusti fioriti, convolvoli e more, che si dissetavano all'acqua che usciva dalle sue screpolature. Gli insetti ronzavano continuamente intorno a lei e gli uccelli facevano il nido sui bordi.
Non era perfetta, ma si sentiva tanto tanto felice.

Abbiamo bisogno di credere nella perfezione e di avere il coraggio dell'imperfezione. Viviamo in un mondo in cui la perfezione si confonde con lo sforzo per essere "superiori", "i primi", "essere al centro", "essere qualcuno". L'unica perfezione è l'amore. Soltanto così è possibile comprendere le parole di Gesù: "Siate perfetti com'è perfetto il Padre vostro celeste" (Matteo 5,48) che vengono dopo le beatitudini dei poveri, di quelli che piangono, dei miti, di quelli che hanno fame e sete di giustizia, dei misericordiosi, dei puri di cuori, dei pacificatori e dei perseguitati (ingiustamente) a causa della giustizia.
Chi vive a braccia aperte, di solito, non fa carriera, ma trova tanta gente da abbracciare.

*La lampada del minatore
Un uomo scendeva ogni giorno nelle viscere della terra a scavare sale. Portava con sé il piccone e una lampada. Una sera, mentre tornava verso la superficie, in una galleria tortuosa e scomoda, la lampada gli cadde di mano e si infranse sul suolo. A tutta prima, il minatore ne fu quasi contento: “Finalmente! Non ne potevo più di questa lampada. Dovevo portarla sempre con me, fare attenzione a dove la mettevo, pensare a lei anche durante il lavoro. Adesso ho un ingombro di meno. Mi sento più libero! E poi… Faccio questa strada da anni, non posso certo perdermi!”. Ma la strada ben presto lo tradì. Al buio era tutta un’altra cosa. Fece alcuni passi, ma urtò contro una parete.
Si meravigliò: non era quella la galleria giusta? Come aveva fatto a sbagliarsi così presto? Tentò di tornare indietro, ma finì sulla riva del laghetto che raccoglieva le acque di scolo. “Non è molto profondo”, pensò, “ma se ci finisco dentro, così al buio, annegherò di certo”. Si gettò a terra e cominciò a camminare carponi. Si ferì le mani e le ginocchia. Gli vennero le lacrime agli occhi quando si accorse che in realtà era riuscito a fare solo pochi metri e si ritrovava sempre al punto di partenza. E gli venne una infinita nostalgia della sua lampada. Attese umiliato che qualcuno scendesse per venire a cercarlo e lo portasse su facendogli strada con qualche mozzicone di candela.
“Lampada sui miei passi è la tua parola, Signore, luce sul mio cammino. Chi scopre la tua parola entra nella luce, anche i semplici la capiscono” (Salmo 119).
 
Una grande città era dominata da un’orgogliosa e magnifica cattedrale. Su di essa svettava un superbo campanile. Ma l’opera era incompiuta, il campanile era muto: non aveva le campane. Il vescovo decise di dotare il campanile di una campana degna della cattedrale e lanciò a tutta la città un pressante invito per raccogliere oggetti d’argento da far fondere per realizzare con il contributo di tutti una campana d’argento. Un giorno, dal presule incaricato di raccogliere le oblazioni arrivò una povera vedova. Consegnò timidamente un centesimo d’argento, che era tutto quello che possedeva. L’uomo prese la moneta con piglio sprezzante e, appena la donna lasciò la stanza, lanciò la moneta fuori dalla finestra nel giardino sottostante. “Un centesimo va bene per i mendicanti! A cosa può servire per una grande opera come la nostra?”. L’iniziativa fu un successo. Fu raccolto molto argento che venne fuso per realizzare una campana stupenda: una meraviglia che a detta degli esperti non aveva nulla di simile al mondo. Il giorno di Pasqua, la maestosa campana d’argento fu benedetta e innalzata sul campanile. Poi il vescovo stesso ebbe l’onore di dare il primo rintocco della nuova campana. La campana però emise soltanto un pietoso gemito e poi si fermò del tutto. Tecnici ed esperti intervennero, ma nessuno riusciva a spiegare il perché. La campana d’argento ostinatamente taceva. Il vescovo pregò Dio di mostrargli la causa di questo fallimento. Un angelo in sogno, una notte, gli rivelò quello che il suo incaricato aveva fatto con l’offerta della povera vedova. Il vescovo cercò immediatamente il presule addetto alla raccolta delle offerte e gli chiese spiegazioni. Poi entrambi andarono in giardino e cercarono insieme, carponi, inginocchiati nell’erba e fra i cespugli, fino a quando non riuscirono a trovare la moneta della vedova. Il vescovo fece rifondere la campana, ma questa volta ci mise anche la monetina della vedova. Quando, qualche settimana dopo, riprovarono a suonarla, la campana riempì l’aria con il più bel suono che mai avessero sentito.
 
Anche solo un battito del tuo cuore, Dio lo sente.
Il fiordo era immerso nella profonda tranquillità della notte artica. L'acqua sciabordava leggera sulla spiaggia. Avvolto dal profumato tepore della sua casa di legno, Hans il pescatore tesseva la rete della sua prossima stagione di pesca. Era solo nell'angolo del camino. La sua dolce sposa Ingrid riposava nel piccolo cimitero di fianco alla chiesa. Improvvisamente però risuonarono fresche risate gioiose. La porta si aprì per lasciar passare la bionda Guendalina, la sua carissima figlia, che teneva per mano il fratellino Eric.
«Guendalina, ora sei in vacanza. Vuoi prendere il mio posto a intrecciare la rete da pesca nuova mentre io vado a riparare la barca?».
«Oh sì, papà!».
Le ore passavano. Guendalina lavorava di buona lena, maglia dopo maglia, nodo dopo nodo. Ma i giorni si aggiungevano ai giorni. La corda era scabra. L'appretto per impermeabilizzarla ruvido, le mani facevano male. Le sue piccole amiche si sporgevano dalla porta: «Guendalina, vieni a giocare con noi!». E le maglie si allentavano sempre di più, i nodi era sempre meno stretti, la corda sempre meno impermeabilizzata.
Arrivò la primavera. Il fiordo s'illuminò ai primi raggi del sole. La pesca riprese. Tutto fiero del lavoro della sua figlia carissima, Hans il pescatore imbarcò la sua rete da pesca nuova sul suo fidato vecchio battello.
«Vieni con me, piccolo Eric, per la nostra prima uscita!».
Pieno di gioia il ragazzino saltò a bordo. La bar scivolò nell'acqua. La rete affondò nelle onde verdazzurre. Eric batteva le mani vedendo i pesci argento saltare e guizzare nella rete ben piena.
«Una pesca fantastica! Aiutami a tirare su la rete, figliolo!».
Ed Eric tirava, tirava con tutte le sue forze. Ma vinto dal peso, pluf! piombò in acqua, proprio in mezzo alla rete.
«Non è niente!», pensò papà Hans, issando velocemente la rete a bordo. «La mia rete è solida! É la mia Guendalina che l'ha tessuta con le sue mani: Eric verrà su con i pesci!».
La rete uscì dall'acqua leggera. Ahimè, al fondo aveva solo un grande squarcio... I nodi stretti male si erano allentati. Le maglie mal fissate si erano aperte. E il piccolo Eric riposava ormai in fondo al fiordo.
«Ah, se avessi intrecciato ogni maglia con amore», piangeva Guendalina.
É nel quotidiano che si tesse la rete dell'eternità. Ogni giorno è un nodo. Puoi non pensarci, ma il giorno della pesca arriverà e dipenderà anche da quello che avrai intrecciato quaggiù, oggi.
Un uomo anziano si era ammalato gravemente. Il suo parroco andò a visitarlo a casa. Appena entrato nella stanza del malato, il parroco notò una sedia vuota, sistemata in una strana posizione accanto al letto su cui riposava l'anziano e gli domandò a cosa gli serviva.
L'uomo gli rispose, sorridendo debolmente: "Immagino che ci sia Gesù seduto su quella sedia, e prima che lei arrivasse gli stavo parlando... Per anni avevo trovato estremamente difficile la preghiera, finché un amico mi spiegò che la preghiera consiste nel parlare con Gesù. Così ora immagino Gesù seduto su una sedia di fronte a me e gli parlo e ascolto cosa dice in risposta. Da allora non ho più avuto difficoltà nel pregare".
Qualche giorno dopo, la figlia dell'anziano signore si presentò in canonica per informare il parroco che suo padre era morto. Disse: "L'ho lasciato solo per un paio d'ore. Quando sono tornata nella stanza l'ho trovato morto con la testa appoggiata sulla sedia vuota che voleva sempre accanto al suo letto".
"Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio". (Mt 5,8)
Viveva un tempo tra i monti un uomo che possedeva una statua, opera di un antico maestro. L'aveva buttata in un angolo, faccia a terra, e non se ne curava affatto.
Un giorno, si trovò a passare nei pressi un uomo che veniva dalla città. Essendo un uomo di cultura, quando vide la statua chiese al proprietario se fosse disposto a venderla. Il proprietario rise e disse: "E chi vuole che compri, scusi, quella pietra sporca e scialba?".
L'uomo della città disse: "Ti do' in cambio questa moneta d'argento". E l'altro ne fu sorpreso e felice. La statua fu trasportata in città, a dorso di elefante. E dopo molte lune, l'uomo dei monti si recò in città, e mentre camminava per la strada vide gente affollarsi davanti ad un edificio, dove un uomo gridava a gran voce: "Venite a vedere la statua più bella, la più mirabile esistente al mondo. Solo due monete d'argento per ammirare l'opera meravigliosa di un grande maestro".
E l'uomo dei monti pagò due monete d'argento ed entrò nel museo per vedere la statua che lui stesso aveva venduto per una moneta. (K. Gibran)
Vivevo sul lato in ombra della strada e osservavo i giardini dei vicini al di là della strada, festanti nella luce del sole. Mi sentivo povero, e andavo di porta in porta con la mia fame. Più mi davano della loro incurante abbondanza, più diventavo consapevole della mia ciotola da mendicante. Finché un mattino mi destai dal sonno all'improvviso aprirsi della mia porta, e tu entrasti a chiedermi la carità. Disperato, ruppi il coperchio del mio scrigno, e scoprii sorpreso la mia ricchezza. (Rabindranath Tagore)

*L'anfora imperfetta  

Ogni giorno, un contadino portava l'acqua dalla sorgente al villaggio in due grosse anfore che legava sulla groppa dell'asino, che gli trotterellava accanto. Una delle anfore, vecchia e piena di fessure, durante il viaggio, perdeva acqua. L'altra, nuova e perfetta, conservava tutto il contenuto senza perderne neppure una goccia. L'anfora vecchia e screpolata si sentiva umiliata e inutile, tanto più che l'anfora nuova non perdeva l'occasione di far notare la sua perfezione: "Non perdo neanche una stilla d'acqua, io!". Un mattino, la vecchia anfora si confidò con il padrone: "Lo sai, sono cosciente dei miei limiti. Sprechi tempo, fatica e soldi per colpa mia. Quando arriviamo al villaggio io sono mezza vuota. Perdona la mia debolezza e le mie ferite". Il giorno dopo, durante il viaggio, il padrone si rivolse all'anfora screpolata e le disse: "Guarda il bordo della strada". "É bellissimo, pieno di fiori". "Solo grazie a te", disse il padrone. "Sei tu che ogni giorno innaffi il bordo della strada. Io ho comprato un pacchetto di semi di fiori e li ho seminati lungo la strada, e senza saperlo e senza volerlo, tu li innaffi ogni giorno...".
Siamo tutti pieni di ferite e screpolature, ma se lo vogliamo, Dio sa fare meraviglie con le nostre imperfezioni. Ho fatto tanti sogni che non si sono mai avverati. Li ho visti svanire all'alba. Ma quel poco che grazie a Dio si è attuato, mi fa venire voglia di sognare ancora.
Ho formulato tante preghiere senza ricevere risposta, pur avendo atteso a lungo e con pazienza, ma quelle poche che sono state esaudite mi fanno venire voglia di pregare ancora.
Mi sono fidato di tanti amici che mi hanno abbandonato e mi hanno lasciato a piangere da solo, ma quei pochi che mi sono stati fedeli mi fanno venire voglia di avere ancora fiducia.
Ho sparso tanti semi che sono caduti per la strada e sono stati mangiati dagli uccelli, ma i pochi covoni dorati che ho portato fra le braccia, mi fanno venire voglia di seminare ancora.

C'era una volta una città i cui abitanti amavano sopra ogni cosa l'ordine e la tranquillità. Avevano fatto delle leggi molto precise, che regolavano con severità ogni dettaglio della vita quotidiana. Tutte le fantasie, tutto quello che non rientrava nelle solite abitudini era mal visto o considerato una stranezza. E per ogni stranezza era prevista la prigione.
Gli abitanti della città non si dicevano mai «buongiorno» per la strada; nessuno diceva mai «per piacere»; quasi tutti avevano paura degli altri e si guardavano sospettosamente.
C'erano anche quelli che denunciavano i vicini, se trovavano un po' troppo bizzarro il loro comportamento.
Il commissario Leonardi, capo della polizia, non aveva mai abbastanza poliziotti per condurre inchieste, sorvegliare, arrestare, punire...
Già nella scuola materna, i bambini imparavano a stare ben attenti alle loro chiavi. E c'erano chiavi per ogni cosa: per le porte, per l'armadietto, per la cartella, per la scatola dei giochi e perfino per la scatola delle caramelle!
La sera, la gente aveva paura. Rientravano tutti a casa correndo e poi sprangavano le porte e chiudevano ben bene le finestre.
Cristiana aveva i capelli biondi
Erano rimasti tuttavia dei ragazzi che sapevano ancora scambiarsi qualche strizzata d'occhi e anche degli insegnanti che li incoraggiavano... Ma, soprattutto, c'era Cristiana.
Cristiana aveva i capelli biondi come il sole, gli occhi scintillanti come laghetti di montagna e non pensava mai: «Chissà che cosa dirà la gente?». Nella città si facevano molte dicerie sul suo conto. Perché Cristiana aiutava tutti quelli che avevano bisogno di aiuto, consolava i bambini che piangevano e anche i vecchietti rimasti soli, perché accoglieva tutti coloro che chiedevano un po' di denaro o anche solo qualche parola di speranza.
Tutto questo era scandaloso per la città. Non potevano proprio sopportare ulteriormente quel modo di vivere così diverso dal loro. E un giorno il commissario Leonardi, con venti poliziotti, andò ad arrestare Cristiana, o Cri-Cri, come l'avevano soprannominata gli amici. E per essere sicuro che non combinasse altre stranezze, la fece mettere in prigione. Questo accadde qualche giorno prima di Natale. Natale era una festa, ma molti non sapevano più di chi o di che cosa. Sapevano soltanto che in quei giorni si doveva mangiare bene e bere meglio. Ma senza esagerare, per non prendersi qualche malattia... Soprattutto, la sera della vigilia di Natale, tutti dovevano mettere le proprie scarpe davanti al camino, per trovarle piene di doni il giorno dopo. Una cosa questa che, nella città, facevano tutti, ma proprio tutti. Così fu anche quel Natale.
Una gran confusione
All'alba, tutti si precipitarono dove avevano messo le scarpe, per trovare i loro regali. Ma... che era successo? Non c'era l'ombra di un regalo. Neanche un torrone o un cioccolatino!
E poi... le scarpe!
In tutta la città, le scarpe risultavano spaiate. Il commendator Bomboni si trovò con una scarpina da ballo, una vecchia ottantenne aveva una scarpa bullonata da calcio, un bambino di cinque anni aveva una scarpa numero 43, e così di seguito. Non c'erano due scarpe uguali in tutta la città! Allora si aprirono porte e finestre e tutti gli abitanti scesero in strada. Ciascuno brandiva la scarpa non sua e cercava quella giusta. Era una confusione allegra e festosa. Quando i possessori delle scarpe scambiate si trovavano, avevano voglia di ridere e di abbracciarsi.
Si vide il commendator Bomboni pagare la cioccolata a una bambina che non aveva mai visto e una vecchietta a braccetto con un ragazzino.
Solo qualche finestra restava ostinatamente chiusa. Come quella del commissario Leonardi. Quando però il commissario sentì il gran trambusto che veniva dalla strada, pensò a una rivoluzione e corse a prendere le armi che teneva sul camino. Immediatamente il suo sguardo cadde sulle scarpe che aveva collocato davanti al camino. E anche lui si bloccò, sorpreso. Accanto alla sua pesante scarpa nera c'era... una pantofola rossa di Cri-Cri. Stringendo la pantofola rossa in mano, il commissario corse alla prigione.
La cella dove aveva rinchiuso Cri-Cri era ancora ben chiusa a chiave. Ma la ragazza non c'era. Ai piedi del tavolaccio, perfettamente allineate c'erano l'altra scarpa del commissario e l'altra pantofola rossa. Dal finestrino, protetto da una grossa inferriata, proveniva una strana luce. Il commissario si affacciò. Nella strada la gente continuava a scambiarsi le scarpe e ad abbracciarsi.
Con un'insolita commozione, il commissario si accorse che la luce che veniva dal finestrino era bionda e calda come il sole e aveva dei luccichii azzurri, come succede nei laghetti di montagna.
E incominciò a capire.

*L’occhio del falegname
C’era una volta, tanto tempo fa, in un piccolo villaggio, la bottega di un falegname. Un giorno, durante l’assenza del padrone, tutti i suoi arnesi da lavoro tennero un gran consiglio.
La seduta fu lunga e animata, talvolta anche veemente. Si trattava di escludere dalla onorata comunità degli utensili un certo numero di membri.
Uno prese la parola: “Dobbiamo espellere nostra sorella Sega, perché morde e fa scricchiolare i denti. Ha il carattere più mordace della terra”.
Un altro intervenne:” Non possiamo tenere fra noi sorella Pialla: ha un carattere tagliente e pignolo, da spelacchiare tutto quello che tocca”.
“Fratel Martello – protestò un altro – ha un caratteraccio pesante e violento. Lo definirei un picchiatore. È urtante il suo modo di ribattere continuamente e dà sui nervi a tutti. Escludiamolo!”.
Così discutevano, sempre più animosamente, gli attrezzi del falegname. Parlavano tutti insieme, il martello voleva espellere la lima e la pialla, questi volevano a loro volta l’espulsione di chiodi e martello, e così via. Alla fine della seduta tutti avevano espulso tutti.
La riunione fu bruscamente interrotta dall’arrivo del falegname. Tutti gli utensili tacquero quando
lo videro avvicinarsi al bancone di lavoro. L’uomo prese un asse e lo segò con la Sega mordace.
Lo piallò con la Pialla che spela tutto quello che tocca.
Sorella Ascia che ferisce crudelmente, sorella Raspa dalla lingua scabra, sorella Cartavetro che raschia e graffia, entrarono in azione subito dopo.
Il falegname prese poi i fratelli Chiodi dal carattere pungente e il Martello che picchia e batte.
Si servì di tutti i suoi attrezzi di brutto carattere per fabbricare una culla. Una bellissima culla per accogliere un bambino che stava per nascere.
Per accogliere la Vita.

Dio ci guarda con l’occhio del falegname.

Lui era un giovane studioso e serio, lei una ragazza bella e saggia. E si amavano. Prima di partire per il servizio militare, lui volle farle un regalo. Un regalo che le ricordasse il suo amore. Doveva però fare il conto con le finanze, già messe a dura prova dai libri dell'Università.
Girò per negozi e grandi magazzini. Dopo mille «prendi e posa» si decise. Acquistò un enorme ombrello di un bel rosso vivo. Sotto quel grande ombrello rosso i due ragazzi si diedero il primo addio, si scambiarono la promessa di amore eterno, decisero di sposarsi. Nella nuova casa, l'ombrello finì in uno sgabuzzino.
Passarono gli anni, arrivarono due figli, le preoccupazioni, qualche tensione di troppo, la noia, i silenzi troppo lunghi.
Una sera, seduti sul divano, lui e lei sbadigliavano davanti alla tv. Lei improvvisamente si alzò, corse nello sgabuzzino e dopo un po' tornò con l'ombrello rosso. Lo spalancò e una nuvoletta di polvere si sparse nell'aria. Poi si sedette sul divano con l'ombrello rosso spalancato. Dopo un lungo istante, lui si accoccolò accanto a lei sotto il grande ombrello. Si abbracciarono teneramente.
E ritrovarono tutti i sogni smarriti sotto la polvere dei giorni.
Un uomo e una donna si erano sposati dopo un lungo fidanzamento, avevano avuto quattro figli, i quattro figli erano cresciuti e a loro volta si erano sposati. La sera del matrimonio dell'ultima figlia, si ritrovarono nella loro casa. Soli. Erano ridiventati una coppia.
Si sedettero uno davanti all'altra.
Lui guardò a lungo sua moglie.
E poi disse: «Ma chi diavolo sei, tu?».
Non dimenticate l'ombrello rosso.
Una donna, che non aveva grandi risorse economiche, trovò un uovo. Tutta felice, chiamò il marito e i figli e disse: ”Tutte le nostre preoccupazioni sono finite.
Guardate un po’: ho trovato un uovo! Noi non lo mangeremo, ma lo porteremo al nostro vicino perché lo faccia covare dalla sua chioccia.
Così presto avremo un pulcino, che diventerà una gallina.
Noi naturalmente non mangeremo la gallina, ma le faremo deporre molte uova, e dalle uova avremo molte altre galline, che faranno altre uova.
Così avremo tante galline e tante uova. Noi non mangeremo né le galline né uova, ma le venderemo e ci compreremo una vitellina.
Alleveremo la vitellina e la faremo diventare una mucca. La mucca ci darà altri vitellini, finché avremo una bella mandria. Venderemo la mandria e ci compreremo un campo, poi venderemo e compreremo, compreremo e venderemo…”.
Mentre parlava, la donna gesticolava. L’uovo le scivolò di mano e si spiaccicò per terra.
I nostri propositi assomigliano spesso alle chiacchiere di questa donna:”Farò… Dirò… Rimedierò…”. Passano i giorni e gli anni, e non facciamo niente.
Ai giovani che venivano da lui per la prima vol­ta, Rabbi Bunam raccontava la storia di Rabbi Eze­chia, figlio di Rabbi Jekel di Cracovia. Dopo anni e anni di dura miseria, che però non avevano scosso la sua fiducia in Dio, questi ricevette in sogno l'or­dine di andare a Praga per cercare un tesoro sotto il ponte che conduce al palazzo reale.
Quando il sogno si ripeté per la terza volta, Eze­chia si mise in cammino e raggiunse a piedi Praga. Ma il ponte era sorvegliato giorno e notte dalle sentinelle ed egli non ebbe il coraggio di scavare nel luo­go indicato. Tuttavia tornava al ponte tutte le matti­ne, girandovi attorno fino a sera. Alla fine il capita­no delle guardie, che aveva notato il suo andirivieni, gli si avvicinò e gli chiese amichevolmente se avesse perso qualcosa o se aspettasse qualcuno. Ezechia gli raccontò il sogno che lo aveva spinto fin lì dal suo lontano paese. Il capitano scoppiò a ridere: «E tu, po­veraccio, per dar retta a un sogno sei venuto fin qui a piedi? Ah, ah, ah! Stai fresco a fidarti dei sogni! Allora anch'io avrei dovuto mettermi in cammino per obbedire a un sogno e andare fino a Cracovia, in ca­sa di un ebreo, un certo Ezechia, figlio di Jekel, per cercare un tesoro sotto la stufa! Ezechia, figlio di Je­kel, ma scherzi? Mi vedo proprio a entrare e mette­re a soqquadro tutte le case in una città in cui metà degli ebrei si chiamano Ezechia e l'altra metà Jekel!».
E rise nuovamente. Ezechia lo salutò, tornò a casa sua e cercò sotto la stufa.
Trovò il tesoro e lo dissotterrò e con esso costruì la sinagoga del suo villaggio.
Il maestro divenne famoso mentre era ancora in vita. Raccontavano che Dio stesso una volta avesse cercato il suo consiglio:
«Voglio giocare a nascondino con l'umanità. Ho chiesto ai miei angeli quale sia il posto migliore per nascondersi. Alcuni dicono le profondità dell'ocea­no. Altri la vetta della montagna più alta. Altri an­cora la faccia nascosta della luna o una stella lonta­na. Tu cosa mi consigli?».
Rispose il maestro: «Nasconditi nel cuore uma­no. È l'ultimo posto a cui penseranno».
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